Fabio Rossi (Università degli Studi di Messina)
Il particolare impasto linguistico delle novelle e dei romanzi verghiani suscitò numerose critiche da parte dei letterati e dei grammatici più tradizionalistici. Soprattutto alcune soluzioni sintattiche risultavano sgradite, in quanto troppo vicine al parlato meno sorvegliato. Verga prese a cuore molte di quelle critiche, al punto da “correggere” alcuni costrutti nelle edizioni successive alla princeps. Il presente articolo, partendo da una sintetica rassegna delle critiche al “nuovo” sintattico, mostra come siano proprio quelle supposte «sgrammaticature» (secondo l’ironica definizione di Capuana) l’elemento di maggior interesse, oggi, della scrittura e della struttura narrativa verghiane. L’articolo si concentra soprattutto sulla resa, mediante quelle «sgrammaticature», della polifonia tipica della tecnica del discorso indiretto libero, del virtuosistico cambiamento del punto di vista e dell’altrettanto virtuosistico andirivieni della voce narrante. Il “nuovo” sintattico, pragmatico e testuale della scrittura verghiana assume dunque più propriamente i connotati di un “nuovo” narrativo, in una modernissima operazione intrinsecamente metacomunicativa, troppo precoce, forse, per lusingare i contemporanei, ma destinata a larghissima fortuna internazionale nei decenni successivi.